A metà degli anni Sessanta dell’Ottocento, nei boschi fitti e negli avvallamenti aspri che circondano Monteforte Irpino, si consumò una storia che coniugava passione, crudeltà e ribellione. Mariannina Della Bella, detta “Zimunella”, nata intorno al 1847, trovò presto un destino fuori dalle regole del mondo contadino, quando, ancora minorenne, si legò al brigante Antonio Manfra – capo di una delle bande più temute dell’Irpinia postunitaria, attivo sin dal 1861 nei boschi intorno a Gaudi .
I verbali dell’epoca rivelano un singolare protagonismo femminile: Mariannina non si limitava a seguire Manfra, ma gestiva personalmente informazioni strategiche sulle masserie isolate, suggerendo i nomi di chi doveva cadere vittima delle incursioni brigantesche. Il delegato di pubblica sicurezza di Monteforte la bollò come “mandante di svariati omicidi” e aggiunse, con toni moralistici, che l’“accensione dell’impudica fiamma” di Zimunella aveva trasformato una semplice “giovanetta” in una “brigantessa” dominata dall’idolatria della morte .
Arrestata nell’agosto 1864 e subito confinata lontano dal suo paese, Mariannina scontò cinque mesi di isolamento, cercando invano di ottenere il permesso di trasferirsi a Napoli per partorire con maggiore anonimato. Il 15 gennaio 1865 fece ritorno a Monteforte, segnata nel fisico e nello spirito da quell’esilio coattivo .
Il suo rientro alimentò nuove voci: si diffuse il pettegolezzo che Don Giovanni Amodeo, il sindaco, fosse innamorato di lei e che fosse lui il vero padre del bambino che Mariannina portava ormai al sesto mese. La giunta comunale, presieduta dallo stesso Amodeo, la etichettò insieme alla madre, Maria Teresa Valentino, come “di condotta pessima” e “connivente con i briganti”, sottoponendole al domicilio coatto e imputandole responsabilità in alcuni delitti locali .
Il 15 giugno 1865, su nuova segnalazione, arrivò un secondo arresto. Durante la traduzione in carcere, Zimunella sbottò in minacce appassionate, apostrofando il delegato di polizia come “codardo” e giurando vendetta entro trenta giorni, certa del sostegno di Manfra nell’eliminazione del suo persecutore . Il 23 dicembre dello stesso anno, un tribunale di Napoli la condannò a quindici anni di lavori forzati, senza alcuna concessione di clemenza .
Tra gli oggetti custoditi nel fascicolo processuale, lo storico Valentino Romano rinvenne una lettera completa di Antonio Manfra indirizzata alla sua amata in carcere. La riproduciamo qui integralmente, in corsivo:
“Aggraziatissima moglie
Dopo averti ringraziata ti farò conoscere l’ottimo stato della mia buona salute così spero sentire lo stesso di voi. Tanto vi sono scritto ho saputo che avete fatta una grande signora.
Come hai avuto coraggio di farmi tanti inganni, forse sei stata qualche volta abbandonata da me? Dicono i detti antichi chi paga avanti e male servito perché io mi era preso il tuo honori e ti abbandonava e non ti dava niente; tutto questo non mi succedeva quando tu tenevi questa intenzione di incannarmi: mi dicevi a me che ti volevi ammogliare e io ti dava qualunque consento finché non era trattato da messero [misero] prima da te e poi da tanta nemici miei.
Aggraziata Mariannina,
se Iddio permette che io ritorno a la nostra patria con tanto honore tu come hai coraggio di guardarmi con tanti gusti e piaceri che mi hai dato a me? E questa era la scuola che io ti faceva: notte e giorno meglio mi intossicavi e non mi facevi questa mancanza. Aggraziata Mariannina, tutto l’intero Paese, sapendo che facevi l’amore con me, eri molto rispettato e nessuno ti riguardava per paura di me; ma mo [adesso] che mi hai fatta questa mancanza perderai il rispetto e sarai proscritta da tutti. Ma è meglio che sia prevenuto da te che non da me: finché non dirai che io sono qualche traditore io non piango per nessuna cosa, ma piango che voi avete a piacere che io passo qualche disgrazia.
Questo è il bene che te ho voluto e te ho fatto rispettare da tutti. Sì, è vero che io mi ho richiamato qualche piacere, ma pure era fatto il giuramento avanti la Vergine del Carmine che non prendeva moglie se non mi sposava a te. Ma poi tu mi hai ingannato a S. Antonio: io non me ne ero innamorato per nessuna cosa, solo per gli occhi e perché grandissimo onore, e non me ne posso sposare. Un giorno e l’altro avrai una novità che sono morto dalla collera per pensare a te.
Tu non l’hai fatto che stai afflitta, ma l’avrai fatto pel tuo divertimento.
Basta, io ti giuro sopra la Vergine del Carmine: non ti mettere paura. Quando vuoi venire a parlare con me, vieni senza timore perché io non ti do nessun tradimento, perché io tengo a memoria il tuo onore.
Vi raccomando a questo fanciullo che voi fate, perché lo voglio conoscere a chi assomiglia. Datelo a una persona sicura, non lo mandate a nessuna parte, e prega Iddio che io ritorno acciòché io ti do la mensata fine a quanto li richiama Iddio.
Ti salutano i miei compagni che non sanno questa riuscita. Fatemi risposta e mandatemi a dire qualunque improprietà che io non mi prendo collera. Ho perso la mia sorte e non la trovo più.
Bacio la mano a tua madre: non mi dica di non farmi fare questo a me. Ti saluto e ti abbraccio e ti do mille baci. Per sempre mi segno.”
Nelle settimane successive, un’inchiesta parallela in Veneto confermò che i documenti presentati per le sue difese erano del tutto fasulli: non v’era alcun cantiere reale, nessuna ditta autorizzata, e le fatture intestate a imprese locali risultarono tutte disconosciute. Così, la “brigantessa” rimase sola con la sua reputazione e la pena, mentre il mito intorno al suo nome si gonfiava nei racconti popolari.
Oggi, la figura di Mariannina Della Bella resta scolpita in un’epoca di scontri feroci e di contraddizioni profonde. Non semplice amante di un bandito, né mera vittima di una repressione statale, ella si impone come esempio di protagonismo femminile nel contesto del brigantaggio postunitario, capace di sfidare norme sociali e ruoli di genere, lasciando dietro di sé tracce di forza e di ambiguità che ancora appassionano storici e narratori.

