
Fra il maggio e il settembre del 1860 il regno delle Due Sicilie (comprendente tutta l’Italia meridionale e la Sicilia, sotto la dinastia borbonica) cadde come un fragile castello di carte non per congiure interne e/o internazionali ma perché – come ha scritto la storica Renata De Lorenzo – era un «paese privo di legalità, nel quale la persecuzione dei liberali da parte della Polizia e dei governatori militari colpisce le idee e le case, fino all’incendio delle abitazioni [e il] Governo del terrore tende a mortificare qualsiasi forma di progresso».
Uno dei molti intellettuali perseguitati dalla polizia borbonica fu l’economista e politico napoletano Antonio Scialoja, arrestato il 23 settembre 1849 sulla base di false testimonianze, per un reato da lui non commesso.
Liberato dopo tre anni, grazie all’intervento di Napoleone III, in una lettera del 10 aprile 1851 all’economista inglese Richard Cobden, lo Scialoja denunciò le gravi condizioni in cui versava il regno delle Due Sicilie e indicò tra i ventimila e i ventunomila il numero dei detenuti politici, molti dei quali avevano l’unica colpa di possedere pubblicazioni ritenute pericolose oppure erano stati incarcerati a causa di semplici sospetti e languivano, spesso i condizioni spaventose, nelle carceri borboniche.
Una delle più tristemente note prigioni del regno delle Due Sicilie fu il famigerato carcere di Montefusco, noto – non a caso – come lo «Spielberg d’Irpinia», che fu specificamente destinato alla custodia dei detenuti politici.
Insieme a molti altri, a Montefusco fu rinchiuso il patriota leccese Sigismondo Castromediano (arrestato nel 1849 e condannato, l’anno seguente, a trenta anni di carcere), il quale, molti anni dopo, così descrisse il raccapricciante luogo della sua detenzione:
«Costruito nei secoli della barbarie, lo scavarono nel sasso sulla scoscesa del monte a guisa delle latomie degli antichi schiavi, bugigattoli sotterranei, basse volte, oscurità soffocante, malsania, fatto ad esalarvi lo spirito: un solo speco era più vasto e fu assegnato a noi. […]
Divisa in due corsie quella tomba e sostenuta con archi e pilastri, le pareti ha grommate, luride e in taluni punti chiazzate di salnitro, e tanta umidità tramandano da raccogliere acqua stropicciandovi le mani. Le alte finestre da non raggiungere punto eran munite sì da doppie e grosse inferriate, ma con logore e rotte imposte, e il pavimento di ciottoli sconnessi già da lunga stagione a punte sporgenti, sicché sopra camminandovi ricordava la tortura dei ceci. Taccio dei topi, dei ragni e degli altri schifosi insetti che ivi regnavano, e taccio della malefica atmosfera che vi si respirava. Non v’era più dubbio, ivi ci avevano infossati allo scopo unico di farci morire».
Bibliografia
S. Castromediano, Galere e carceri politiche, Lecce, 1895;
A. Cogliano (a cura di), 1860 L’Irpinia nella crisi dell’unificazione, «Quaderni Irpini», marzo 1989;
R. De Lorenzo, Borbonia felix, Roma, 2013.