Tempo di voti, tempo di ricorsi: il comportamento diseducativo delle famiglie che faticano ad accettare la realtà oggettiva

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In Italia si sta assistendo a un fenomeno sempre più diffuso che coinvolge scuola, famiglie e istituzioni: l’aumento dei ricorsi contro bocciature, voti bassi o provvedimenti disciplinari.
Una tendenza che non si limita al solo ambito scolastico, ma che riflette un mutamento profondo nel modo in cui la nostra società affronta la frustrazione, la sconfitta e il principio di autorità. L’educazione all’insuccesso temporaneo, inteso come processo formativo e occasione di crescita, sembra progressivamente smarrito. Si è affermata, invece, una cultura della rivalsa, della tutela a ogni costo e della deresponsabilizzazione, che non riguarda soltanto gli studenti, ma soprattutto gli adulti che li circondano, e alla quale si ricorre anche quando si sa di avere torto.

Sempre più spesso, di fronte a un’insufficienza o a un giudizio negativo, non si cerca di comprendere le cause dell’insuccesso o di stimolare nello studente un percorso di maturazione e di crescita, ma si preferisce impugnare la valutazione, rivolgendosi ai tribunali amministrativi, come se l’esperienza educativa fosse riducibile a un contenzioso legale, e come se gli avvocati avessero competenze pedagogiche, educative e disciplinari superiori a quelli di docenti qualificati e certificati da formazione capillare, concorsi vinti e anni di esperienza.

Secondo alcuni dati. negli ultimi anni – mentre diminuiscono i contenziosi per infortunistica stradale (e sarebbe interessante indagare se esista o meno una correlazione reale e significativa) – i ricorsi al TAR contro le decisioni delle scuole sono cresciuti in modo sensibile, e non riguardano più solo le situazioni eccezionali o borderline, ma anche casi in cui la valutazione negativa è pienamente giustificata dai risultati conseguiti (nonostante, e talora con la consapevolezza dei genitori; cioè anche nei casi in cui i genitori sono consapevoli che i loro pargoletti abbiano alterato con vari artifici illeciti, tra cui l’uso non autorizzato e fraudolento di telefonini durante le prove scritte).
Questo atteggiamento – cioè il voler forzare valutazioni più positive, nonostante la consapevolezza di non meritarle – evidenzia una frattura profonda tra scuola e famiglia, che un tempo si presentavano unite nel compito educativo, mentre oggi appaiono spesso contrapposte.

Ciò detto, la normativa vigente in materia di valutazione scolastica è piuttosto chiara: il D.P.R. 122 del 2009,  così come modificato dalla Legge 107del 2015 e dal D.Lvo 62 del 2017, stabilisce che le decisioni del Consiglio di Classe sono espressione della discrezionalità tecnica e della professionalità dell’organo collegiale, purché supportate da un’adeguata documentazione e trasparenza, e nessun tribunale può entrare nel merito del giudizio ma solo verificare che  gli aspetti formali non presentino irregolarità.

Tuttavia, l’interpretazione e l’intervento giudiziario sempre più frequente tentano  di minare questo principio, facendo passare l’idea che ogni decisione sgradita possa e debba essere ribaltata, come se la scuola fosse un ente punitivo e arbitrario da sorvegliare, e non un’istituzione educativa da rispettare e con il quale collaborare per la crescita sana degli studenti, in cui andrebbe compresa anche l’educazione alla correttezza e all’onestà intellettuale.

Questa riprovevole deriva ha anche una profonda radice antropologica. La società contemporanea, come rilevato già decenni fa dallo psicoanalista tedesco Alexander Mitscherlich, tende a disconoscere il valore dell’autorità.
L’idea che l’adulto “autorevole” – insegnante, educatore, medico, infermiere, poliziotto – eserciti un ruolo meritevole di rispetto si è indebolita, sostituita da modelli relazionali più orizzontali, dove spesso il desiderio di evitare ogni conflitto prevale sull’esigenza di porre limiti.
Si è passati da una figura genitoriale normatrice a una figura protettiva e giustificatrice, disposta a difendere il figlio in ogni circostanza, anche quando è evidente una sua responsabilità. Questo atteggiamento non solo impedisce allo studente di confrontarsi con i propri errori, ma priva i giovani della possibilità di formare una personalità solida, capace di gestire la fatica, l’attesa e la delusione temporanea.

A livello psicologico, diversi esperti – tra cui Paolo Crepet – hanno sottolineato come questa mancanza di educazione alla frustrazione stia generando generazioni più fragili. I ragazzi faticano ad accettare il temporaneo fallimento, percependolo non come tappa del percorso di crescita, ma come una minaccia da cui difendersi a ogni costo.
In un contesto in cui tutto dev’essere immediato, gratificante e reversibile, il “no” diventa intollerabile, la bocciatura inaccettabile, l’insuccesso personale non dipende mai da un impegno non sufficiente ma viene sempre attribuito a presunte colpe altrui.
In questo quadro, la scuola – che per sua natura è luogo di valutazione, confronto e progressiva conquista dell’autonomia – rischia di essere snaturata nel suo ruolo fondamentale, e viene ridotta a fornitore di servizi (ai genitori-clienti) da monitorare e contestare piuttosto che costituire un’istituzione formativa da valorizzare e da riconoscere maggiormente (sia socialmente, sia legalmente, sia economicamente).

La scuola italiana, peraltro, non dispone di strumenti alternativi alla valutazione per sostenere il processo di crescita dei ragazzi. Il voto, se usato con equilibrio e accompagnato da un dialogo educativo, è uno strumento che permette allo studente di misurarsi con sé stesso e con gli altri.
Privarlo di significato o banalizzarne il valore significa togliere al ragazzo una bussola, un riferimento oggettivo nel percorso di apprendimento. Non si tratta di esaltare la competizione, ma di riconoscere che imparare a perdere, accettare una critica, riflettere sui propri limiti sono elementi fondanti della maturazione personale.

L’iperprotezione genitoriale, spesso giustificata con il desiderio di non far soffrire il figlio, finisce invece per indebolirlo. In un mondo in cui l’incertezza, la selezione e l’adattamento sono costanti, l’incapacità di tollerare la frustrazione si trasforma in vulnerabilità.
Le scuole si ritrovano così a fronteggiare studenti sempre più ansiosi, fragili, talvolta aggressivi (per ragioni variabili ed esterni al contesto scolastico), che non tollerano di essere messi in discussione.
Ma la vera domanda, che chiama in causa l’intera collettività, è se stiamo ancora educando a vivere nella realtà, o se non stiamo invece preparando i nostri figli a un mondo fittizio, dove tutto è dovuto e ogni ostacolo può essere rimosso con un reclamo.

Ritrovare un’alleanza educativa tra scuola e famiglia è oggi più urgente che mai. Occorre riscoprire la funzione pedagogica dell’errore, la dignità della sconfitta e la forza che deriva dal rialzarsi. Solo così si potranno formare individui capaci non solo di affrontare un’interrogazione, ma anche di superare le prove – ben più complesse – della vita adulta.

Prof. Andrea Canonico