“Entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem”, ovvero “gli “enti” non devono essere moltiplicati oltre il necessario
Il rasoio di Occam è un principio filosofico che suggerisce di preferire la spiegazione più semplice tra quelle possibili, quando tutte sono ugualmente valide.

Alle ultime regionali in Campania del 2020 l’affluenza si è fermata intorno al 55,5 per cento, con una partecipazione che già allora mostrava segnali di stanchezza democratica e di distanza tra cittadini e istituzioni. E si teme che percentuali analoghe si avranno anche nelle prossime regionale del 23 e 24 novembre 2025.
Occam — o meglio il suo famoso “rasoio” — ci invita a privilegiare la spiegazione più semplice quando le alternative sono troppe e confuse. Applicato alla crisi di partecipazione che torna a interrogare la Campania in vista delle nuove urne, il rasoio suggerisce una lettura che non ha bisogno di artifici retorici o di complicate teorie del complotto: il motivo della disaffezione, che poi si traduce in astensionismo, risiede nell’eccessiva distanza tra chi governa e chi è governato.
Non è un’accusa moralistica, ma un’osservazione della forma sociale che la politica ha assunto nelle ultime decadi: una vita pubblica a più velocità, che distribuisce privilegi, percorsi di carriera e tutele in modo differenziato secondo appartenenze e ruoli.
Questa distanza si manifesta in forme concrete e facilmente percepibili. Si osservano due codici, uno per gli esponenti politici e uno per i cittadini, nei quali si intrecciano immunità formali e informali, linguaggi, accesso alle reti e ai poteri che regolano la promozione sociale. Si vedono due sistemi pensionistici, che rispondono a logiche diverse e raccontano storie di durata lavorativa e di riconoscimento differenziato (oltre 40 anni per i “comuni mortali” e solo qualche annetto per i “dominanti”).
Si notano poi due mondi di opportunità . tacitamente accettati e dati per scontati – dove incarichi, consulenze e carriere interne alla “macchina” politica filtrano candidati e favoriscono legami familiari o di clientela, mentre i figli e i parenti dei cittadini normali si scontrano con concorsi, sacrifici e scarti.
Queste fratture non producono soltanto rabbia: producono disincanto. Difronte alla trasparenza incerta di certi incrementi patrimoniali tra chi ha ricoperto cariche pubbliche, il sospetto — anche soltanto prudente — che si attivino pratiche opache (scambi di voti, reticenze, triangolazioni economiche) agisce come repellente democratico.
Non è necessario sostenere che ogni politico sia corruttore per capire che la percezione diffusa di una politica “a parte” erode la legittimazione: la democrazia richiede non solo la correttezza, ma la credibilità della correttezza.
Il panorama dei candidati rende, inoltre, il quadro ancora più paradossale: accanto a figure autorevoli e competenti, si affastellano personaggi improbabili, portatori d’acqua (ai quali poi bisognerà dare in cambio almeno il vino), scelte di comodo, liste che assomigliano più a repertori di opportunità personali che a piattaforme di progetto collettivo.
Nella sovrabbondanza di gente assetata di protagonismo (in Campania 900 candidati pero 5o seggi; in Irpinia ben 70 pretendenti per appena 4 posti), l’elettore si smarrisce. E,  nella confusione, la motivazione a recarsi alle urne si assottiglia.
Troppi candidati, troppi messaggi, troppi interessi, troppa pubblicità e troppo poco ragionamento politico: è un cocktail che favorisce l’astensionismo più della critica contestatrice, perché l’indifferenza è la forma più silenziosa e meno eroica di disapprovazione.
Si può essere ironici — ed è salutare esserlo — pensando alla politica come a uno spettacolo televisivo che promette scenografie ma dimentica il copione. Il pubblico, dopo qualche stagione, smette di pagare il biglietto. Ma l’ironia non deve diventare distrazione: quando la rappresentanza si trasforma in rendita di posizione, la crisi non colpisce soltanto le urne, ma la capacità della società di immaginare il futuro.
È questo vuoto d’immaginario che alimenta la fuga.
Per illuminare la questione con la lente degli intellettuali, si può ricordare la lezione di Tocqueville: la democrazia vive di partecipazione e di associazioni intermedie; quando queste si sfilacciano, la sovranità popolare si impoverisce.
Oppure richiamare Hannah Arendt nella sua denuncia della banalità del male trasformata in banalità dell’amministrare: non è solo la colpa personale che conta, ma la struttura che permette l’autoriproduzione di classe dirigente priva di responsabilità reale.
Non si tratta di citare guru per ornamento: si tratta di mostrare che le lenti critiche esistono e che il fenomeno è riconosciuto da chi ha riflettuto a fondo sulle dinamiche del potere.
Una proposta di senso utile per arginare l’astensionismo non è un elenco tecnico e nemmeno una ricetta magica, ma una direzione: ridurre la distanza praticabile, aumentare la trasparenza, ricondurre la politica a regole uguali per tutti.
Significa rendere visibili i percorsi di carriera politica, limitare forme di nepotismo, spiegare in modo chiaro i criteri di scelta delle nomine e applicare in maniera uniforme le norme sulle incompatibilità e sui conflitti d’interesse. Significa anche ripensare la formazione alla politica: che non sia solo professione di potere ma mestiere della responsabilità.
Solo così la politica potrà riconquistare l’offerta che manca alla domanda: senso, progetto, conseguenze.
C’è infine una dimensione più sottile: la dignità del gesto di votare. Il voto non è solo un atto utilitaristico; è un rituale civico che richiama l’appartenenza. Quando chi governa dà l’impressione di aver rinunciato a quel patto di dignità — offrendo privilegi, percorsi privilegiati e una narrativa di minorità del cittadino — il rituale perde valore.
È su questo punto che l’ironia diventa amara: assistiamo a una rappresentazione in cui i ruoli si sono capovolti, e il pubblico ha finalmente deciso di alzarsi e andarsene.
Concludo con una nota che mescola severità e speranza: la diagnosi è semplice e, per fortuna, anche la cura contiene rimedi concreti. Non si tratta di «scuotere le coscienze» con appelli enfatici, ma di restituire alla politica la noiosa, affascinante arte del servizio.
Ridare senso al mandato, restituire trasparenza ai conti e ai percorsi, e premiare merito e progetto piuttosto che appartenenza e rendita sono misure che parlano al senso comune e possono riavvicinare gli elettori.
Fino ad allora, il “rasoio di Occam” resterà impietoso: la spiegazione più semplice dell’astensionismo è la più vera, e non è confortante — perché smaschera un divario che tutti conoscono e che tutti – anche i più illuminati intellettuali di partito – fingono di ignorare.
ARTICOLO CORRELATO:
 

