Biotecnologie: dalla presunta de-estinzione del “metalupo” ai DNA “estranei” presenti nell’uomo moderno.

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Recentemente, alcuni quotidiani hanno riportato notizie dall’impatto mediatico elevato, come quella del  cosiddetto “metalupo” , che sembra richiamare l’immaginario fantasy alla Game of Thrones, e la vicenda del “topolino peloso con geni di mammut”.
Ci sembra perciò che sia giunto il momento di fare un po’ di chiarezza.

Questi titoli, creati in un contesto di divulgazione di massa, hanno suscitato grande interesse fra il pubblico. Tuttavia, è fondamentale analizzare tali affermazioni alla luce delle evidenze scientifiche: infatti, mentre la riscoperta e l’applicazione delle tecniche di editing genetico rappresentano un ambito di ricerca attivo e promettente, esse non si sono ancora tradotte in una totale e incontestabile “resurrezione” di antiche specie.

Innanzitutto, occorre precisare che il cosiddetto “metalupo” non è mai esistito (se non nella letteratura fantasy). Inoltre, il termine “metalupo” non significa “metà-lupo” ma, dal greco antico, “accanto al lupo” o “oltre il lupo”.

Secondo quanto riportato dai media, la Colossal Biosciences avrebbe creato un ibrido ricombinando un DNA antico estratto da fossili di Aenocyon dirus, una specie estinta da circa 10.000 anni e denominata “Dire Wolf” (lupo terribile), con il DNA di un lupo moderno, ottenendo un ovulo chimerico poi impiantato nell’utero di femmine di cane domestico.
Le fonti principali del DNA antico sarebbero un dente di 13.000 anni fa trovato in Ohio e un cranio di 72.000 anni fa proveniente dall’Idaho.

Da quanto si è capito, i biotecnologi applicando la biotecnologia denominata “Crispr-CAS9”,  avrebbero modificato 14 geni dei circa 25.000 del lupo attuale (che corrisponde al “Canis lupus”, ovvero all’attuale lupo grigio, da cui è disceso il cane domestico o “Canis lupus familiaris”, addomesticato circa 12.000 anni fa) e poi introdotto 2o geni del “Dire Wolf”.
Da questo lavoro, di grande rilevanza scientifica, sono nati tre cuccioli, chiamati Romolo, Remo e Khaleesi presentanti caratteristiche distintive: dimensioni maggiori, mantello bianco, mascelle e denti più robusti, e una muscolatura più sviluppata.

Però – lo ribadiamo – non è stato creato né tantomeno “de-estinto” nessun metalupo (che non è mai esistito).

Analogamente, il “topolino peloso con geni di mammut” è stato presentato, più correttamente, come un interessante caso di ingegneria genetica che integra tratti di un animale estinto (il mammuth) in una animale tuttora vivente (topo).
Questi esperimenti sono condotti con estrema cautela, data la necessità di disporre di DNA sufficientemente intatto e della complessità intrinseca nel riprodurre non soltanto il genoma, ma anche le numerose interazioni cellulari e ambientali che determinano il fenotipo di una specie.
In altre parole, la ricerca punta a comprendere meglio come certi tratti possano essere “riaccesi” in una specie vivente, senza però aspirare a una completa resurrezione della specie originaria.

Un ulteriore aspetto da considerare riguarda i limiti tecnici ed etici della de-estinzione.
La degradazione del DNA antico e la difficoltà di ricostruire un genoma completo sono ostacoli non trascurabili.
Anche quando si utilizzano modelli viventi, come appunto nel progetto di “mamutizzazione” degli elefanti, la ricostruzione del fenotipo originale richiede una comprensione approfondita delle interazioni genetiche, cellulari ed ecologiche.
L’utilizzo di tecniche di editing genetico in organismi viventi comporta riflessioni importanti su tematiche di biodiversità, equilibrio ecologico e benessere degli animali.
La creazione di ibridi o animali “modificati” solleva questioni sul loro ruolo nell’ecosistema e sul possibile impatto a lungo termine che tali interventi potrebbero avere.

È frequente che la cultura pop, fortemente influenzata da opere come Jurassic Park, alimenti l’idea che la de-estinzione sia imminente e che la manipolazione genetica possa presto portare alla resurrezione di creature preistoriche o all’ingegnerizzazione di organismi dai tratti ibridi.

Tuttavia, se da un lato tali narrazioni catturano l’immaginazione del pubblico, dall’altro esse semplificano e distorcono la realtà scientifica.

 

A proposito di genetica delle popolazioni, forse può essere utile ricordare che:

 

Com’è noto, noi uomini apparteniamo alla Specie “Homo Sapiens”, che proviene dall’Africa.
Noi europei, così come gli asiatici, siamo ibridi, perché ci siamo incrociati con “Homo neanderthalensis” (Uomo di Neanderthal).

In particolare, ogni singolo essere umano non africano possiede tra l’1% e il 4% di DNA Neanderthal nel suo genotipo, in seguito agli incroci avvenuti tra 47.000 e 40.000 anni fa, quando l’uomo di Neanderthal si è estinto.
Mentre, siccome tali percentuali riguardano geni diversi, si stima che circa il 20% del genoma Neanderthal sia distribuito tra tutti gli esseri umani moderni non africani.

Inoltre i popoli indigeni dell’Oceania possiedono una significativa quantità di DNA Denisovano, un’altra specie arcaica: circa il 4-6 % in ogni individuo, e circa il 40% nei diversi geni distribuiti nell’intera popolazione.

Quindi, chiarito che tutti gli uomini attuali appartengono alla stessa specie, e che non esistono oggi razze umane distinte, ma solo “etnie” diverse per cultura e tradizioni, sarebbe bene che alcuni “suprematisti” la smettano di fare i superiori: geneticamente i veri “Homo sapiens” sono gli africani.

Infine, con le biotecnologie sopra descritte non sarebbe impossibile “assemblare” un essere umano che raccolga in sé tutto il 20% del genoma neanderthal e il 40% denisoviano con solo il 40 sapiens !