La Cina e l’ascesa dell’Open Source: brevi considerazioni sull’innovazione digitale globale

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Le fondamenta dell’economia digitale poggiano ormai in gran parte su software open source, ovvero programmi il cui codice sorgente è liberamente accessibile, modificabile e ridistribuibile. Dietro buona parte dei siti web che visitiamo quotidianamente ci sono server basati su Apache e nginx, che insieme coprono poco meno del 40 % del mercato globale – nginx da solo si attesta intorno al 20,7 %, mentre Apache si muove sui livelli del 18,9 %. A livello di infrastrutture hardware, Linux domina incontrastato, presente su oltre il 60 % dei server web e alla base di Android, il sistema operativo che alimenta il 72,7 % degli smartphone nel mondo. Persino nel cloud computing si respira aria “open”: Kubernetes, la piattaforma originariamente sviluppata da Google per orchestrare container, è adottata o in valutazione dal 93 % delle organizzazioni e usata in produzione dall’80 %, confermando il suo ruolo cruciale nelle moderne architetture distribuite.

Dietro a questi numeri ci sono milioni di sviluppatori, tecnici e appassionati che collaborano via piattaforme come GitHub, diventata ormai il vero centro nevralgico dell’open source. Nell’edizione 2024 del suo report annuale Octoverse GitHub ha registrato quasi un miliardo di contributi verso progetti pubblici, open source o meno, mentre il totale degli iscritti supera i 100 milioni di utenti. Sul podio delle nazioni con più sviluppatori attivi figurano Stati Uniti (circa 20 milioni), India (17 milioni) e, per la prima volta con oltre 9 milioni di iscritti, la Cina.

Fino a pochi anni fa la Cina era rimasta ai margini della comunità open source globale. Oggi non solo vi partecipa a pieno titolo, ma ne è diventata uno dei motori più dinamici. I grandi gruppi tecnologici nazionali – da Alibaba a Baidu, passando per Tencent e Huawei – investono risorse significative in progetti open source: finanziano fondazioni, sponsorizzano conferenze, rilasciano propri software sotto licenza libera e contribuiscono al codice di iniziative internazionali. L’anno scorso, per esempio, Baidu ha aperto alla comunità l’intero set di varianti del suo modello di linguaggio ERNIE 4.5, mettendo a disposizione avanzate capacità di conversazione e comprensione del testo con licenza Apache 2.0. Alibaba, dal canto suo, ha sviluppato Qwen 2.5-Max, un modello dalle dimensioni di 14 miliardi di parametri in grado di trainare conversazioni complesse e carichi di lavoro di generazione testuale, mentre la startup DeepSeek ha stupito il mercato in gennaio con il suo DeepSeek‑R1, capace di piazzarsi tra i primi tre modelli open source al mondo con un punteggio di 89 nei benchmark più diffusi, frutto di un lavoro condotto con risorse relativamente contenute.

La spinta verso l’open source in Cina ha trovato un primo vero impulso nell’estate del 2019, quando le restrizioni americane hanno di fatto impedito a Huawei di utilizzare Android sui propri smartphone. La risposta è stata rapida e articolata: nel 2020 l’azienda ha lanciato OpenHarmony, una famiglia di sistemi operativi liberamente modificabili per dispositivi mobili e IoT, e ha promosso insieme ad Alibaba, Baidu, Tencent e altre società la OpenAtom Foundation, per coordinare iniziative open source su scala nazionale e internazionale. Da allora l’ecosistema cinese dell’open source non ha mai smesso di crescere, tanto sul fronte software quanto su quello hardware. Unitree, la startup di robotica di Hangzhou, ha aperto i propri progetti di automazione – dai dati di addestramento agli schemi meccanici – nella speranza di stabilire standard condivisi a livello globale, mentre il governo spinge con incentivi e finanziamenti verso l’adozione di RISC‑V, architettura per microchip completamente aperta, per ridurre la dipendenza dalle soluzioni proprietarie delle aziende occidentali.

Nonostante questo fermento, la convivenza tra la cultura della trasparenza insita nell’open source e il controllo tipico di uno Stato autoritario rimane complessa. Già nel 2021 Pechino ha temporaneamente filtrato l’accesso a GitHub per motivi di sicurezza interna, costringendo molti sviluppatori a ricorrere a VPN per proseguire il proprio lavoro. Di recente, inoltre, è entrata in vigore una normativa che sottopone ogni progetto ospitato su Gitee – l’alternativa “nazionale” a GitHub – a una revisione governativa, con obbligo per gli autori di certificare la conformità del codice alle leggi cinesi. Anche la regolamentazione delle intelligenze artificiali rientra in questa logica: nella primavera del 2023 la piattaforma Hugging Face, punto di riferimento mondiale per la condivisione di modelli di machine learning, è stata oscurata in Cina perché reputata potenzialmente veicolo di contenuti contrari all’“unità nazionale e all’armonia sociale”.

Da un lato, quindi, l’adozione di strumenti e pratiche open source ha permesso a Pechino di ridurre in breve tempo il gap con Silicon Valley, accelerando le proprie capacità di innovazione e spingendo un intero settore verso nuovi traguardi; dall’altro, ogni inasprimento del controllo potrebbe rallentare il libero scambio di conoscenze e indebolire l’attrattiva delle soluzioni cinesi all’estero. Non a caso molte imprese puntano sull’open source come leva di soft power, sperando che la trasparenza dei propri prodotti compensi le diffidenze dovute ai timori di spionaggio o a possibili interruzioni imposte da future sanzioni. La sfida per la Cina sarà dunque riuscire a bilanciare rigore istituzionale e cultura della collaborazione aperta: condizione essenziale perché il sogno di un’innovazione veramente globale, nata e cresciuta grazie al contributo di chiunque, non resti un progetto incompiuto.