
Nel contesto di un mondo in cui la spesa militare globale ha raggiunto livelli senza precedenti — 2 718 miliardi di dollari nel 2024, con un incremento del 9,4% rispetto all’anno precedente — la logica del riarmo sembra ormai radicata in ogni angolo del pianeta. Questo trend decennale di crescite ininterrotte segnala non solo una crescente percezione di insicurezza, ma anche il peso sempre più determinante dell’industria bellica nelle dinamiche geopolitiche.
La notte appena trascorsa, tra il 6 e il 7 maggio, ha visto l’inizio di un possibile nuovo conflitto tra due potenze nucleari. La popolosa India ha dato il via all’“Operazione Sindoor”, lanciando missili contro nove presunti “infrastrutture terroristiche” in territorio pakistano, in risposta all’attacco del 22 aprile a Pahalgam, dove 26 civili erano stati uccisi.
Islamabad ha replicato dichiarando l’abbattimento di diversi velivoli indiani e denunciando vittime civili, mentre lo spazio aereo pakistano è stato chiuso per 48 ore e si è ripreso il fuoco d’artiglieria lungo la Linea di Controllo.
Qui occorrerebbe prendere coscienza che il nodo delle divisioni etniche e nazionali viene spesso strumentalizzato da chi trae profitto dalla tensione, siano essi nazioni straniere oppure multinazionali o mercanti d’armi. La geopolitica è materia complessa che richiede studi e approfondimenti non semplici. Tuttavia, è un fatto che, globalmente, l’industria della guerra stia facendo affari d’oro soffiando sul fuoco dei disaccordi regionali e sulle rivendicazioni di confine o delle minoranze: nel periodo 2019–23 le esportazioni di armi statunitensi sono aumentate del 17%, superando di gran lunga quelle di qualsiasi altro Paese e coprendo il 42% del mercato mondiale. Allo stesso tempo, molti Stati europei hanno quasi raddoppiato le proprie importazioni di sistemi militari, segno di una diffusa rincorsa agli armamenti anche all’interno della NATO (e qui c’è anche da valutare l’ipotesi considerare che alcuni sistemi difensivi acquistati possano addirittura essere parzialmente disattivati dai nostri ex o presunti “amici” fornitori).
A livello teorico, il modello delle “new wars” di Mary Kaldor evidenzia come i conflitti contemporanei si alimentino non più solo di logiche statali, ma di reti ibride di attori statali e non‑statali, sostenute da fonti di finanziamento predatorio e dal controllo di economie locali in crisi.
Tali guerre “per l’identità” tendono a trovare terreno fertile nelle fratture etniche, culturali e sociali, perpetuando un circolo vizioso di violenza e profitto.
Parallelamente, Johan Galtung ci ricorda che esiste una “violenza culturale” fatta di simboli, narrazioni e norme che legittimano la guerra come strumento di politica, normalizzando il riarmo e scoraggiando soluzioni non violente. I popoli non devono cedere ai registi occulti, che seminano zizzania e generano conflitti e desideri di secessionismo fondati sull’esasperazione di differenze etniche o culturali interne .
Solo la cultura potrà salvarci dall’azione di organizzazioni facoltose e senza scrupoli che creano fratture assoldando presunti leader regionali. Già nel 1999 l’UNESCO, con la Dichiarazione e Programma d’Azione sulla Cultura di Pace (risoluzione A/RES/53/243), aveva indicato nell’educazione, nel dialogo interculturale e nella partecipazione democratica le chiavi per contrastare la spirale della violenza e promuovere una vera cultura di pace.
Oggi più che mai, l’alternativa al circolo vizioso del riarmo e della violenza risiede nella dimensione culturale, nell’educazione e nella solidarietà globale: un’inversione di marcia necessaria per resistere a chi trae profitto dai conflitti e costruire ponti là dove si vorrebbero innalzare muri.
Riflettiamo…