
Capitato, per fortunate circostanze, a Napoli, dalle parti di Mergellina, qualche mese fa ho potuto finalmente vedere da vicino, nella suggestiva cornice della chiesa barocca di Santa Maria del Parto, quanto è bello il diavolo: il famoso ‘diavolo di Mergellina’ – bell’e ‘nfame (come dicono a Napoli) – e quel suo stupendo volto femminile, effigiato in un dipinto che Leonardo Grazia da Pistoia realizzò nel 1542, su incarico di Diomede Carafa, rampollo di una ben nota famiglia dell’alta aristocrazia meridionale, vescovo di Ariano Irpino dall’età di diciannove anni (1511) fino alla morte nel 1560 e, dal 1555, Cardinale di Santa Romana Chiesa, del titolo dei Santi Silvestro e Martino ai Monti.
In realtà, la figura diabolica – metà donna e metà serpente – non è l’unica protagonista della pala che campeggia sul primo altare a destra, entrando, di S. Maria del Parto, anzi è solo una sorta di comprimaria, che occupa il campo inferiore del dipinto, dedicato, quasi interamente, alla figura dell’Arcangelo Michele (il cui volto ritrarrebbe quello del vescovo committente), caratterizzata – secondo un diffuso modello iconografico – da grandi ali e da un’armatura da soldato romano, con i piedi saldamente poggiati sul corpo ripugnante della creatura demoniaca e con la lancia a sfiorarle il collo, sullo sfondo di un paesaggio angoscioso e brullo.
Oltre al volto e alle braccia, morbidamente femminili, del demonio – rappresentato, peraltro, con le tradizionali ali di pipistrello – ciò che rende particolarmente affascinante e intrigante il dipinto è la scritta che in esso si legge: «Fecit victoriam alleluja 1542 Carafa», intorno alla quale, sin dal Seicento, si sono scatenati l’interesse e la fantasia dell’intellighenzia napoletana che ha individuato la genesi del dipinto in un amore illegittimo e tormentato fra l’allora vescovo Carafa e una gentildonna napoletana, pur dando di esso letture non sempre univoche.
Uno dei primi a farne cenno è Carlo Celano, secondo il quale: «nel volto del demonio conculcato dall’Arcangelo, l’artista ebbe a ritrarre una donna che follemente erasi invaghita di Diomede Carafa Vescovo di Ariano […]; il quale Diomede fece fare quella pittura in segno del trionfo su le mondane insidie, col motto: fecit victoriam, alleluia, facendo allusione al nome della donna che si chiamava Victoria».
Due secoli dopo, anche Matilde Serao si occupò del quadro ma, indicando (forse volutamente) la donna col generico nome di «madama Isabella», addebitò a Diomede Carafa la straziante passione, culminata nel «giorno in cui la madama Isabella, all’impensata, dopo una lotta d’un anno in cui essa non aveva ceduto d’una linea sola, presa da una subitaneo abbandono e dominata da una strana causa, disse d’amarlo».
Benedetto Croce, invece, sulla scorta del Celano, imputa alla nobile Vittoria, della quale «altri ne bisbigliò il cognome, d’Avalos», il tentativo, non riuscito, di «scrollare una salda virtù».
La liaison, dunque, ebbe effettivamente luogo? fu solo tentata? fu solo sognata? Forse non lo sapremo mai. L’unica certezza è che la vicenda si concluse con il profondo pentimento di un uomo di Chiesa, che volle lasciare ai posteri una traccia potente della selva oscura, «selvaggia e aspra e forte», che la sua anima aveva affannosamente attraversato uscendone, alla fine, salvo.
Bibliografia
C. Celano, Notizie del bello dell’antico e del curioso della città di Napoli, Napoli, 1692.
M. Serao, Leggende napoletane, Milano, 1881.
B. Croce, Storie e leggende napoletane, Bari, 1919.

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