
I referendum si terranno l’8 e il 9 giugno 2025. Perché il loro esito produca effetti è indispensabile raggiungere il quorum del 50 % + 1 degli aventi diritto: se non si supera questa soglia, le proposte abrogative restano inefficaci e la normativa vigente resta confermata – in pratica, l’astensione o il mancato raggiungimento del quorum equivale a un voto “No”. Negli ultimi anni l’astensionismo è in crescita: alle elezioni politiche del 2022 ha votato circa il 64 % degli aventi diritto, e a molte consultazioni locali e europee l’affluenza si è attestata tra il 50 % e il 60 %, segno di un disagio crescente verso gli strumenti di partecipazione diretta.
Chi sceglie di votare No ritiene che il referendum sia un mezzo troppo grezzo per intervenire su temi di elevata complessità, che richiedono invece riforme coordinate e approfondite. Sul “contratto a tutele crescenti” introdotto dal Jobs Act si argomenta che l’attuale bilanciamento tra flessibilità per le imprese e garanzie per i lavoratori sia già sufficientemente equilibrato: tornare a un regime basato soltanto sul reintegro in caso di licenziamento ingiustificato alzerebbe i costi di assunzione e innescherebbe un’ondata di contenziosi, con ritardi nella giustizia e difficoltà per le aziende nel programmare le proprie risorse.
Allo stesso modo, il tetto di sei mensilità di indennizzo per le piccole imprese è considerato un’ancora di sostenibilità: le micro e piccole realtà – che costituiscono oltre il 95 % del tessuto produttivo – non potrebbero far fronte a risarcimenti illimitati senza mettere a rischio la loro sopravvivenza. La certezza dei costi favorisce gli investimenti e la creazione di posti di lavoro, soprattutto in territori economicamente fragili, dove l’incertezza normativa scoraggerebbe qualsiasi piano di crescita.
Quanto ai contratti a termine, la possibilità di proroghe fino a dodici mesi senza causale è ritenuta fondamentale per gestire picchi produttivi o esigenze temporanee. Ripristinare l’obbligo di motivare fin dal primo rinnovo e limitare la durata complessiva a due anni moltiplicherebbe gli adempimenti burocratici, spingendo molte imprese verso il lavoro sommerso e rendendo più difficile l’assunzione di giovani, proprio quando l’obiettivo dovrebbe essere facilitarne l’ingresso nel mondo del lavoro.
Anche la responsabilità in solido negli appalti suscita dubbi: allargare gli obblighi al committente per incidenti occorsi in cantiere allargherebbe le catene di responsabilità tra aziende, aumentando i contenziosi e rallentando i lavori. Si sostiene piuttosto che la sicurezza debba restare un onere primariamente dell’impresa esecutrice, incaricata per competenza dello svolgimento delle opere.
Infine, la proposta di ridurre da dieci a cinque anni il requisito di residenza per la cittadinanza italiana solleva interrogativi sul valore simbolico e sociale di questo riconoscimento. Un percorso di integrazione autentica richiede tempo, dialogo culturale e partecipazione civica; un taglio drastico dei tempi rischierebbe di trasformare la cittadinanza in un diritto acquisito troppo rapidamente, svuotandone il significato e favorendo percorsi considerati meramente opportunistici. Inoltre, molti ritengono che una materia tanto cruciale debba essere discussa e perfezionata in Parlamento, attraverso audizioni e modifiche organiche, anziché con un quesito abrogativo.
In sintesi, il No viene proposto come difesa di un equilibrio costruito nel tempo, capace di coniugare crescita economica e tutela dei diritti, flessibilità e certezza del diritto, e come barriera contro l’aumento del contenzioso, l’irrigidimento normativo, l’indebolimento delle piccole imprese, il rallentamento delle attività produttive e la svalorizzazione di un percorso di integrazione complesso e prezioso.
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