Effettuata TAC ai Campi Flegrei: individuate due aree critiche. Non si possono escludere eruzioni di media entità

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Un recente studio multidisciplinare ha portato alla luce importanti dettagli sulle dinamiche geologiche dei Campi Flegrei, offrendo un quadro più chiaro sulle cause del sollevamento del suolo e sull’attività sismica sempre più frequente nell’area.
Per la prima volta è stata utilizzata una tecnica simile alla tomografia assiale computerizzata, comunemente usata in campo medico, per “scannerizzare” la caldera vulcanica. Attraverso questa speciale tomografia sismica tridimensionale, i ricercatori hanno identificato due zone distinte nel sottosuolo che sembrano agire come veri e propri motori della deformazione del terreno.
La prima si trova a circa tre‑quattro chilometri di profondità sotto l’area compresa tra Pozzuoli e il tratto marino antistante: qui si ipotizza la presenza di magma o fluidi supercritici, che esercitano una forte pressione verso l’alto.
La seconda, più superficiale e situata sotto la zona di Solfatara e Pisciarelli, si trova a circa due chilometri di profondità e sarebbe responsabile della migrazione di fluidi caldi attraverso le rocce più fragili.

Questi risultati sono stati ottenuti integrando modelli sismici, dati di sollevamento del suolo e osservazioni geochimiche. L’insieme delle informazioni raccolte suggerisce che il sistema vulcanico sia tutt’altro che uniforme e statico: le spinte provengono infatti da fonti diverse che si attivano in modi differenti a seconda della pressione e della composizione dei fluidi coinvolti.

In questo complesso equilibrio, un ruolo fondamentale è giocato anche dall’acqua. Alcuni scienziati hanno osservato che l’accumulo di acqua piovana nei sedimenti superficiali, riscaldata da gas magmatici, genera un aumento della pressione interstiziale.
Questa pressione può contribuire direttamente all’innesco di terremoti, spesso avvertiti dalla popolazione come scosse rapide e poco profonde.
Secondo tali studi, il contributo idrico sarebbe addirittura più rilevante di quello magmatico nella genesi dei movimenti tellurici.

Un altro aspetto chiave emerso dalle analisi è la relazione tra la velocità del sollevamento del suolo e la frequenza dei terremoti. I modelli mostrano infatti che esiste un legame di tipo esponenziale: quanto più il suolo si innalza, tanto maggiore è la possibilità che si verifichino scosse.
I dati mostrano, inoltre, scenari analoghi a quelli che hanno preceduto l’ultima eruzione documentata (Monte Nuovo, 1538).

Nonostante la narrazione dominante sia orientata a minimizzare i rischi, non mancano autorevoli voci dissonanti.

Il geologo Mario Tozzi, primo ricercatore del CNR, ricorda come i Campi Flegrei siano un “supervulcano” e non nasconda preoccupazione:

«È un pentolone sotterraneo pieno di magma ribollente… in linea teorica devastanti»
Tozzi avverte che «in uno scenario più catastrofico… dovremo parlare di esodo non evacuazione», e sottolinea la presenza di oltre 29 centri eruttivi nascosti, tra cui anche aree come Astroni, dove un’eruzione non può essere esclusa.

Giuseppe De Natale, sismologo e dirigente INGV, predica prudenza e rigore:

«I dati mostrano segnali importanti, ma vanno letti in un contesto più ampio e con estrema prudenza… i fenomeni possono evolversi lentamente per anni oppure cambiare improvvisamente».
E ancora:
«Queste fasi possono anche terminare senza un’eruzione… potrebbero passare molti altri anni o decenni prima di sapere se terminerà o meno con un’eruzione»



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