Negli ultimi anni, l’Italia ha avviato un processo di trasformazione digitale che, se portato avanti con coerenza e visione, potrebbe ridefinire il suo ruolo economico e sociale in Europa. Tuttavia, il punto di partenza è tutt’altro che rassicurante: il nostro Paese si colloca al 19° posto tra gli Stati europei per livello complessivo di digitalizzazione, secondo il Digital Decade Report 2024. Un dato che evidenzia un ritardo strutturale, frutto di anni di investimenti insufficienti, frammentazione delle politiche pubbliche e scarsa diffusione delle competenze digitali nella popolazione. Ancora più preoccupante è la posizione nella digitalizzazione della pubblica amministrazione, dove l’Italia si trova al 24° posto in Europa, segno di una macchina statale ancora poco agile e tecnologicamente arretrata.
Eppure, non mancano segnali incoraggianti. Sul fronte del cloud, l’Italia si posiziona al 7° posto in Europa per valore di mercato, con una crescita del 23% nell’ultimo anno e un giro d’affari che ha superato gli 8 miliardi di euro. La componente Public & Hybrid Cloud è quella che traina maggiormente la crescita, sostenuta dalla crescente domanda di sovranità digitale e dall’integrazione dell’intelligenza artificiale nei sistemi aziendali e pubblici. Inoltre, l’Italia è al primo posto in Europa per numero di progetti di intelligenza artificiale nella pubblica amministrazione e al secondo per sperimentazioni totali, dimostrando che quando si investe con visione e coordinamento, i risultati possono essere significativi.
In un contesto globale in cui la competitività si gioca sempre più sulla capacità di gestire dati, automatizzare processi e offrire servizi digitali avanzati, l’Italia rischia però di restare ai margini se non accelera. Per colmare il divario, è fondamentale puntare su infrastrutture strategiche, come i data center di ultima generazione, capaci di garantire sicurezza, velocità e sovranità nell’elaborazione delle informazioni. Avere data center sul territorio nazionale non è una scelta tecnica, ma una necessità geopolitica: significa proteggere i dati sensibili di cittadini, imprese e pubbliche amministrazioni, ridurre la dipendenza da operatori esteri e creare le condizioni per uno sviluppo digitale autonomo.
La trasformazione digitale, però, non si esaurisce nell’infrastruttura. Essa implica un cambiamento profondo nel modo in cui si lavora, si produce, si comunica. Per i lavoratori italiani, questo significa l’emergere di nuove professioni legate al cloud, all’intelligenza artificiale, alla cybersecurity, all’analisi dei dati. Significa anche la necessità di aggiornare le competenze, di riqualificarsi, di adattarsi a un mercato del lavoro che premia la flessibilità e la capacità di innovare. Senza un piano nazionale di formazione e accompagnamento, il rischio è quello di creare una frattura tra chi è pronto e chi resta indietro.
Per i giovani, i prossimi cinque anni rappresentano una finestra di opportunità irripetibile. Il futuro è digitale, e l’Italia sta finalmente investendo per renderlo accessibile. Chi saprà cogliere questa occasione potrà non solo trovare lavoro, ma contribuire a ridisegnare il volto tecnologico del Paese. È il momento di investire nella propria formazione, di esplorare nuovi ambiti, di partecipare attivamente alla costruzione di un ecosistema innovativo. Non serve emigrare per innovare: le condizioni per farlo stanno nascendo anche nei territori meno centrali, trasformando le periferie in laboratori di futuro.
A conferma di questa tendenza, il mercato italiano dell’intelligenza artificiale ha raggiunto 1,2 miliardi di euro nel 2024, con un incremento del 58% rispetto all’anno precedente. Questo boom è stato trainato soprattutto dall’adozione della Generative AI, che rappresenta ormai una quota significativa delle soluzioni implementate. Le grandi aziende stanno accelerando l’integrazione dell’AI nei propri processi, mentre le piccole e medie imprese restano indietro: solo il 7% delle piccole e il 15% delle medie imprese ha avviato progetti concreti in questo ambito. Eppure, tra le aziende che hanno già adottato l’intelligenza artificiale, si osserva un livello di integrazione superiore alla media europea, segno che chi investe lo fa con una visione strategica.
I settori più coinvolti sono quelli della manifattura, della finanza, delle telecomunicazioni e del commercio al dettaglio, ma si prevede una forte espansione anche in ambiti come la sanità, la pubblica amministrazione e l’agricoltura. In particolare, l’assistenza sanitaria e i servizi pubblici mostrano tassi di crescita annui superiori al 40%, indicando un potenziale di trasformazione profonda nei servizi essenziali per i cittadini.
Nonostante questi segnali positivi, permangono criticità rilevanti. Solo il 45,8% degli italiani possiede competenze digitali di base, contro una media europea del 55,6%. Il tasso di laureati in discipline ICT è tra i più bassi d’Europa, appena l’1,5%, e la rappresentanza femminile nel settore digitale si ferma al 16% della forza lavoro. Anche l’adozione del cloud e delle tecnologie avanzate resta limitata, con un ecosistema imprenditoriale ancora fragile e pochi unicorni: appena 7 in tutto il Paese, meno del 3% del totale europeo.
Affinché questa rivoluzione sia davvero inclusiva e sostenibile, è necessario che le istituzioni facciano la loro parte. Servono politiche attive per il lavoro digitale, incentivi alla formazione e all’imprenditoria giovanile, una collaborazione stretta tra pubblico e privato per diffondere le competenze digitali anche nelle aree meno servite. Solo così gli investimenti in corso potranno tradursi in un cambiamento reale, capace di coinvolgere l’intero tessuto sociale ed economico.
L’Italia ha davanti a sé una sfida cruciale. Non si tratta solo di recuperare posizioni nelle classifiche europee, ma di costruire un modello di sviluppo che metta al centro la persona, la conoscenza, la capacità di innovare. Il treno della trasformazione digitale è in stazione. Non aspetta. Chi saprà salirci, potrà guidare il futuro.

