In una calda domenica primaverile, lo stadio San Paolo (ora Stadio Maradona) non fece solo tremare i pali della porta: un autentico boato ha fatto vibrare i sismografi, catturando l’impeto degli oltre 80mila tifosi azzurri in un picco di risonanza che l’INGV descrisse come “evidente impronta antropica” sulle registrazioni sismiche cittadine.
Secondo il sindaco, l’edificio del Dipartimento di Ingegneria, adiacente al settore ospiti, ospitava un dispositivo che registrava ogni esultanza come se fosse un lieve terremoto di gioia.
Quel boato seguì una stagione targata Ottavio Bianchi studiata nei manuali di tattica: un approccio pragmatico, difesa schierata a cinque e ripartenze fulminee orchestrate dal genio di Diego Armando Maradona. Il Napoli concluse il torneo con 15 vittorie, 13 pareggi e appena 2 sconfitte, totalizzando 42 punti nel sistema a due punti per successo. Accanto al Pibe de Oro (così era anche chiamato Maradona), si imposero i nuovi acquisti Andrea Carnevale e Fernando De Napoli, mentre in difesa il giovane Ciro Ferrara suggellò la sua crescita fino a diventare colonna portante del reparto arretrato.
La cavalcata tricolore prese slancio già a metà girone d’andata, quando gli azzurri espugnarono il Comunale di Torino infliggendo un doloroso 3‑1 alla Juventus e balzando in testa alla classifica, posizione che non avrebbero più ceduto.
Nessuna flessione di tensione: nella fase cruciale, il Napoli resistette agli assalti di Inter e Roma, imponendo il proprio cromatismo fatto di corsa, pressing asfissiante e lampi di classe pura, fino ad arrivare alla penultima giornata con un margine ormai incolmabile.
A decidere la contesa fu l’1-1 contro la Fiorentina: Carnevale portò in vantaggio gli azzurri, Roberto Baggio pareggiò, ma al fischio finale esplose un boato da leggenda per 82.579 spettatori in delirio.
Era il 10 maggio 1987, giorno in cui il San Paolo fu teatro di un pareggio che valeva uno scudetto: un capolavoro di lucidità e temperamento, suggellato dall’abbraccio collettivo al capitano Maradona.

Maradona, non semplice fuoriclasse ma vero trascinatore carismatico, confezionò assist da fantasista e dribbling da antologia, guadagnandosi l’etichetta di “dio del calcio” per una città che lo acclamarono come Re.
La sua leadership trascinò compagni e tifoseria, trasformando ogni gara casalinga in un rito collettivo dove l’emozione esplodeva al ritmo dei suoi colpi di genio.
Appena spalancate le porte del San Paolo, le strade di Napoli si trasformarono in un’unica, grande onda azzurra: cori, tamburi, fumogeni e caroselli di auto scossero il centro storico e le periferie, dipingendo un corteo festoso che – come ricorda un testimone di Frattamaggiore – “rimbombava fino ai vicoli più stretti, lasciando un’eco che sembrava non volersi abbassare più”.
Quel primo tricolore non fu solo un trofeo, ma l’innesco di un sentimento di riscatto per un’intera regione: aprì la via al double con la Coppa Italia, consacrò Maradona nell’olimpo del calcio e consegnò a Napoli un’identità sportiva indimenticabile, un’eredità che ancora oggi vibra nei cuori azzurri.