Il villaggio preistorico di Nola, denominato “La Pompei dell’Età del bronzo”: come poteva essere e lo stato in cui versa attualmente.

ARTICOLO DEL NUMERO ZERO

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Il villaggio preistorico di Nola è situato in località Croce del Papa (al confine tra Nola e Saviano) e rappresenta un ritrovamento che non ha eguali nel resto del mondo, sia perché il sito ha conservato in condizioni eccezionali i calchi di intere capanne, in cui si riconoscono i minimi particolari costruttivi, sia perché vi sono stati rinvenuti interessanti reperti e tracce che, nell’insieme, costituiscono un suggestivo spaccato sulle attività dei nostri antenati preistorici.

Fu scoperto nel 2001, a circa 6 metri di profondità, nel corso di uno scavo per la costruzione di un supermercato e richiamò subito l’interesse di archeologi, antropologi e vulcanologi di tutto il mondo, che lo definirono “la piccola Pompei dell’Età del Bronzo antico”.

L’importante sito archeologico, che si estende per oltre 1400 metri quadri, fu seppellito da un immane evento eruttivo del complesso Vesuvio-Monte Somma, avvenuto circa 3.800 anni fa e noto come “Eruzione delle pomici di Avellino”, cosiddetto poiché proprio nei dintorni del capoluogo irpino furono rinvenuti, per la prima volta, i depositi pomicei di quell’evento.

Si trattò di un’eruzione pliniana circa 10 volte più distruttiva di quella di Pompei, avvenuta nel 79 d. C., e caratterizzata da un VEI (Indice di Esplosività Vulcanica) di grado 6, su una scala di 8, accompagnata da enormi colate piroclastiche e forse anche di fango (lahar) che, in alcuni siti, formarono uno strato di pomici, ceneri e fango dello spessore di oltre 15 metri, accumulatisi presumibilmente in meno di mezza giornata e derivanti dal collasso di una colonna eruttiva alta una trentina di chilometri.

L’eccezionalità del sito di Nola è dovuta alla circostanza che la struttura delle capanne e i resti delle suppellettili si sono conservati perfettamente, in negativo, nei loro calchi prodotti dalle ceneri vulcaniche che le hanno inglobate (proprio come è avvenuto a Pompei).

La campagna di scavo, coordinata dall’archeologa francese Claude Albore Livadie, ha portato alla luce quattro isole abitative ricche di reperti di immenso valore archeologico. In particolare, dall’esame dei ritrovamenti è stato possibile conoscere le tipologie e le tecniche costruttive delle capanne e dei loro tetti, rivestiti con paglia di grano, nonché delle suppellettili domestiche. Sono stati inoltre rinvenuti resti cereali, fiori e altri vegetali, e alcuni manufatti e utensili, che hanno consentito di farsi un’idea piuttosto precisa della vita condotta dai membri di questa primitiva civiltà.

Nel 2002 vennero rinvenuti anche i calchi di prosciutti appesi a pali, quattro scheletri di capre gravide, lo scheletro di un cane e le impronte di bovini, a conferma delle pratiche della domesticazione e degli allevamenti.

Da vari indizi emersi, gli studiosi si sono inoltre persuasi che il sito portato alla luce costituisca solo una minima parte di una realtà archeologica sicuramente molto più estesa e di grande interesse archeologico.

L’Archeologa Elisa Vitale mentre illustra alla nostra Direttrice Editoriale, dott.ssa Benedetta Napolitano, alcuni particolari delle isole abitative del villaggio preistorico nolano.

Nel 2005 iniziano, però, le prime infiltrazioni dalla falda acquifera e la situazione diventa presto problematica. Nonostante l’impiego di pompe idrovore, richieste dal  giornalista e scrittore Angelo Amato de Serpis, presidente dell’Associazione Meridies,  e dalla Soprintendenza, il livello della falda continua a salire fin quando, nel 2009, invade completamente l’intero sito archeologico ricoprendolo con quasi due metri di fanghiglia e acqua.

A parere della Soprintendenza archeologica il costo di un efficiente impianto idraulico di drenaggio supererebbe i trecentomila euro l’anno. Per tale motivo, nel 2014, si decide di interrare il villaggio preistorico sotto quattro metri di terra e di realizzare una copia a grandezza naturale del villaggio preistorico.

Passano altri tre anni e nel 2017, viene finalmente inaugurato il Parco didatticoscientifico dedicato all’Età del bronzo, una riproduzione in scala 1:1 delle quattro isole abitative portate alla luce oltre 15 anni prima.

Per fortuna, i reperti più interessanti sono stati esposti, e sono visitabili da chiunque, nel bel Museo Storico Archelogico di Nola (vedere il link). Ma, per quanto riguarda il sito, qualcosa deve essere andato storto! Poiché oggi, nel 2022, la riproduzione del villaggio versa in completo stato di abbandono, mentre in altre parti d’Italia, prendendo presumibilmente spunto proprio dal villaggio nolano, sono stati realizzati analoghi parchi archeologici, evidentemente più attrattivi e meglio gestiti.

In definitiva, la domanda che un po’ tutti si pongono è la seguente: non si poteva (e non si può tuttora?) realizzare anche a Nola un Parco archeologico fatto finalmente come si deve e capace di attrarre visitatori e scolaresche e di generare reddito? Magari facendo sistema con le basiliche paleocristiane di Cimitile, le emergenze archeologiche della vetusta città di Avella, il parco archeologico di San Paolo Bel Sito e l’acquedotto augusteo di Palma Campania?

La dimostrazione che la cosa non sia impossibile è che altrove qualcosa di simile altro è stata fatto, e con successo!

Si vedano, per esempio, a questo link, il Parco di Cetona, in provincia di Siena e, a quest’altro link, l’Archeodromo di Grosseto.

Splendidi e funzionali Parchi realizzati in zone che non possono certo vantare un background archeologico come l’importante sito nolano, ormai interrato e di cui i più giovani ignorano l’esistenza, al quale molti, in più parti d’Italia e del mondo, si sembrano essersi proficuamente ispirati.

Maria Strocchia