Sperone nella crisi postunitaria e la tragica fine di Maria Michela

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Il centro storico di Sperone in un’immagine degli inizi del Novecento.

Nata a Sperone il 24 aprile 1836 da una famiglia contadina, non proprio misera ma nemmeno molto agiata, Maria Michela Cuomo avrebbe sicuramente trascorso tutta la sua vita nel più completo anonimato se non si fosse fidanzata, nel 1858, con il bracciante baianese Pasquale Caruso. Quest’ultimo, infatti, dopo aver prestato servizio nell’esercito del regno delle Due Sicilie, nel 1861 si era unito alla banda del brigante mugnanese Angelo Bianco (più noto col soprannome di ’Tturri ‘Tturri), coinvolgendo indirettamente anche la fidanzata (di oltre vent’anni più giovane di lui) come potenziale connivente o, addirittura, complice della banda, tanto che, proprio come «sospetta di connivenza con i briganti per avere essa in quelli il suo amante Pasquale Caruso (detto il Priore) di Baiano», Maria Michela Cuomo era stata arrestata il 16 settembre 1861 da un reparto di bersaglieri, di stanza a Baiano.

Lo stesso giorno, le accuse di connivenza erano state sostanzialmente confermate da una nota del capitano della Guardia Nazionale di Sperone, Marco Napolitano, indirizzata al suo omologo di Baiano, Pietro Sgambati (perché a sua volta lo facesse pervenire al comando dei bersaglieri) nella quale l’ufficiale scriveva, tra l’altro:

Maria  Michela Cuomo, per quanto le mie informazioni mi permettono, fino a tutto il passato agosto è stata in intime relazioni col brigante Pasquale Caruso, e quindi anche colla compagnia cui quel galantuomo apparteneva, che io non so precisare. Dai primi del corrente settembre fin oggi i rapporti tra la Cuomo, ed il Caruso sono stati turbati ed interrotti, dandosi di tal fatto due spiegazioni. Taluni più benevoli vorrebbero che la Cuomo sbigottita dalla fucilazione del cugino Giovanni Alaja si fosse ricusata di più vedere il Caruso: altri poi un po’ più severi dicono che essa avendo avuto dal Caruso denaro ed oro e persuasa della fine a costui riserbata avesse pensato a ritirarsi dalla scena massimamente in tempi nei quali gli affari de’  briganti non vanno tanto bene. Per quel che riguarda poi la sorella Filomena e la madre Domenica Guerriero nulla ho sentito dire sul loro conto e se vi sono state relazioni col Caruso sono state di riflesso. In ultimo Le dico che queste idee sono anche quelle del Sindaco.

Il giorno successivo a quello dell’arresto, Maria Michela Cuomo era stata interrogata a Baiano dal giudice del circondario Achille Bonghi al quale la giovane aveva dichiarato che:

informato il Capitano Comandante la truppa in Sperone, che ella aveva per innamorato Pasquale Caruso alias Priore, ora fra le bande de’ briganti, dopo aversela chiamata, e detto di far questi presentare, al che essa rispondeva di aver fatto collo stesso all’amore tre anni or sono pria di andare a fare il soldato, ma da che ritornato era, e datosi fra la comitiva essa l’aveva abbandonato, e non affatto più trattato, e non sapendo ove ancora si rattrovava, il predetto Signor Capitano l’ha intimato l’arresto, ed inviata a questa giustizia. Essa è innocente, e se prima ha fatto come diceva l’amore, da che si è dato in campagna l’ha perfettamente lasciato, e non vi ha più corrispondenza. E se in casa trovasi la giacca di velluto, il pantalone, ed il gilè dello stesso, è conosciuto che questi fatti ce l’aveva pria di andare a fare il militare, ed anche con danari che prestatigli aveva sua madre, e furono cuciti in Bajano, e ritornato circa un anno fa dalla milizia non se l’ha più presi, ed arrollatosi poi fra i briganti sono rimasti presso di Lei. Le rosette, gli anelli, la collana sono oggetti che la appartengono, e fatti co’ suoi sudori, come suoi, e di sua sorella erano le cinque piastre dentro dello scatolino, e le altre dieci distinte in due parti una di sei, e l’altra di quattro erano di suo padre.

Nel corso dell’interrogatorio, Maria Michela aveva dunque cercato di scindere in maniera molto netta e chiara la sua vita da quella di Pasquale Caruso e di giustificare i gioielli e i pochi soldi trovati nel corso della perquisizione alla sua casa, ma il magistrato non aveva tenuto conto delle sue dichiarazioni, confermando l’arresto e lo stato di detenzione.

Trasferita nelle carceri di Avellino, la Cuomo era stata interrogata da altri magistrati, i quali non riuscendo a concretizzare alcuna prova sul suo conto, il 18 dicembre 1861 l’avevano rimessa in libertà.

Prima di allora Maria Michela Cuomo non era probabilmente mai stata ad Avellino, tuttavia, pur in un contesto completamente sconosciuto, non si era persa d’animo e, per tornare a Sperone, aveva trovato posto – con altri due uomini – sul calesse dell’avellano Pasquale Biancardi, che forse già conosceva.

Partito da Avellino nel primo pomeriggio, il calesse del Biancardi, dopo un paio d’ore giunse alla località Vetriera (in tenimento di Monteforte Irpino), dove raccolse altri quattro viaggiatori, fra i quali i sirignanesi Luciano Di Napoli ed Andrea Colucci, rispettivamente tenente e sergente della Guardia Nazionale.

Intorno alle diciassette, giunto in prossimità della località Ponte di Basso (che segna il confine amministrativo fra i territori di Mugnano del Cardinale e di Monteforte Irpino), il calesse fu bloccato dal brigante Angelo Bianco e da otto uomini della sua banda, fra i quali Pasquale Caruso.

Obiettivo dell’agguato erano i due uomini di Sirignano i quali, nelle fila della Guardia Nazionale – istituita dal governo borbonico ma divenuta poi «strumento di difesa della rivoluzione unitaria» (F. Molfese) – davano parecchio fastidio alle attività delinquenziali della banda di Tturri ‘Tturri ed infatti furono entrambi immediatamente disarmati ed uccisi a bruciapelo.

Dopo il duplice delitto, Pasquale Caruso, riconosciuta la sua ex fidanzata, la fece scendere dal calesse e le chiese probabilmente di seguirlo in montagna e di unirsi alla banda, con la quale già vivevano le drude di diversi briganti.

A tale proposta Maria Michela oppose però un netto rifiuto e tentò di scappare ma il Caruso non esitò a premere il grilletto, colpendo la donna alle spalle e precisamente – come accerterà successivamente l’autopsia – «al di sopra dell’articolazione dell’osso sacro vertebrale», provocando la morte quasi istantanea della vittima.

Rimasto a lungo nel ricordo delle popolazioni dei centri del Baianese, il cruento episodio fu descritto, circa sessant’anni dopo e in maniera molto romanzata, dallo storico Antonio Iamalio, secondo il quale, dopo l’invito del brigante a seguirlo in montagna, Maria Michela

ritrasse a sé la mano con orrore, gittandosi dall’altra parte della vettura, in maniera da non lasciargli più nessuna illusione sulle sue disposizioni di animo. Allora il bandito, visto che il tempo stringeva, poiché un’altra vettura s’avvicinava di su, dicendo “Niente per me, niente per nessuno”, le puntò lo schioppo al cuore e la fece cadere riversa al suolo; indi si rinselvò. Quello fu il primo e forse l’ultimo sangue versato da quel bandito, perché subito dopo riuscì ad evadere e a fuggirsene in America.

Bibliografia

  1. Iamalio, Il brigantaggio mugnanese, in «Atti della Società Storica del Sannio», 1° luglio 1923;
  2. Molfese, Storia del brigantaggio dopo l’Unità, Milano, 1974;
  3. Colucci, Un’oscura pagina del brigantaggio mugnanese, Mugnano del Cardinale, 2000.

 

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