Shoah: anche l’Irpinia conobbe la vergogna di dover istituire suoi “campi di internamento”, ad Ariano, Monteforte e Solofra!

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Non solo nelle grandi città, ma anche nelle piccole realtà rurali dell’Italia, la Shoah ha lasciato il segno. La memoria di quegli anni difficili è ancora viva, soprattutto grazie alla testimonianza di chi, in condizioni estreme, scelse di opporsi alla barbarie. In Irpinia, pur non essendo stato un focolaio di resistenza armata come altre aree, ci furono molti episodi di solidarietà da parte della popolazione locale. Contadini, pastori e semplici cittadini si rifiutarono di collaborare con i nazisti e i fascisti, aiutando gli ebrei a nascondersi o a sfuggire ai rastrellamenti. Non mancarono anche atti di protezione da parte delle forze partigiane che operavano nelle montagne irpine.

Oggi, la Shoah in Irpinia viene ricordata e studiata con impegno da storici, scuole e associazioni locali. Sebbene non ci siano stati campi di concentramento o luoghi di sterminio in questa regione, sono stati avviati progetti di ricerca per documentare la storia delle piccole comunità ebraiche che qui vivevano. In particolare, comuni come Ariano Irpino hanno intrapreso iniziative per conservare la memoria di quegli eventi, organizzando eventi commemorativi, mostre e programmi educativi. Ogni anno, la Giornata della Memoria è un’occasione per riflettere su quella tragedia, con iniziative che coinvolgono le scuole e le comunità locali.

Eppure, come accennato prima, le atrocità dei campi di sterminio che hanno visto l’olocausto di milioni di ebrei, oppositori politici, testimoni di Geova, rom e omosessuali, interessò anche l’Irpinia, per fortuna con modalità non così gravi: non si arrivò a sterminare le persone (per fortuna) ma molti innocenti subirono indicibili e ingiustificate sofferenze anche da noi.

Com’è noto, quando Adolf Hitler promulgò le leggi razziali, anche il fascismo si adeguò istituendo dei “campi di internamento” che, anche se non giunsero mai agli orrori dei “campi di concentramento” tedeschi, privarono della libertà molti innocenti e costituiscono, senza dubbio, una vergogna per il regime dell’epoca.

Il governo fascista predispose due modalità di internamento: quella libera, che confinava gli stranieri in un determinato comune ma con libertà di movimento all’interno del territorio comunale, e quella coatta, che consisteva in una vera e propria prigionia.

In Irpinia, i comuni che ospitarono internati liberi furono, in ordine alfabetico: Aiello del Sabato, Andretta, Avella, Bagnoli Irpino, Bisaccia, Bonito, Calabritto, Calitri, Castel Baronia, Chiusano San Domenico, Forino, Frigento, Flumeri, Gesualdo, Greci, Grottaminarda, Lacedonia, Lauro, Marzano di Nola, Mercogliano, Mirabella, Montefusco, Montella, Montecalvo, Montemarano, Montemiletto, Nusco, Ospedaletto d’Alpinolo, Paternopoli, Quindici, S. Angelo dei Lombardi, San Martino Valle Caudina, Sirignano, Teora e Torella dei Lombardi.

 


Purtroppo, il 7 giugno 1940 furono aperti in Irpinia  3 campi d’internamento fascisti ad Ariano Irpino, Monteforte Irpino e Solofra.

Il campo di Ariano Irpino era quello che più somigliava ai lager tedeschi. Il 7 giugno 1940, il Ministero dell’Interno inviò al Prefetto di Avellino, Nicola Trifuoggi, una circolare in cui ordinava di destinare le casette antisismiche di proprietà del Comune di Ariano Irpino e il villino della famiglia Mazza, situati in località Martiri, a campo di concentramento “per confinati ed internati”. Queste casette erano state costruite dopo il terremoto che ha colpito l’Irpinia il 22 luglio 1930. Le dieci baracche-dormitorio erano circondate da filo spinato e il campo ospitava circa 100 persone, per lo più provenienti dall’Est. Queste baracche furono bruciate dai tedeschi in ritirata dopo l’8 settembre, per cui restano poche tracce.

A Monteforte Irpino erano ospitati principalmente oppositori politici. Nell’ex orfanotrofio Loffredo, attuale sede degli uffici comunali, per tre anni, risiedettero un centinaio di detenuti considerati “pericolosi”. Sono conservate alcune lettere degli internati dalle quali emerge la durezza della loro vita quotidiana, della privazione della libertà, della censura a cui erano sottoposti e delle ristrettezze (erano costretti a vivere con un sussidio di 6,5 lire al giorno, ovvero l’equivalente di un pasto alla mensa del campo). Dopo l’arrivo degli alleati, il campo si svuotò per lasciare il posto ad altre vittime della guerra: profughi istriani e dalmati, cacciati dalle loro abitazioni dal regime comunista di Tito.

Il campo di Solofra fu istituito esclusivamente per prigionieri femminili: nel palazzo signorile di una ricca famiglia di conciatori furono rinchiuse per tre anni 26 donne, per lo più giovani, in prevalenza francesi e polacche. Il loro “reato” era quello di aver sposato degli antifascisti. Furono internate nell’edificio di via della Misericordia e considerate da tutti prostitute. Questo campo rimase attivo fino all’autunno del 1943 quando lo stabile, prima per il terribile bombardamento di settembre e poi per l’arrivo degli Alleati, fu dismesso.

Nonostante l’Irpinia non abbia vissuto la portata delle deportazioni che hanno segnato altre regioni italiane, le sue storie di salvezza e resistenza sono un simbolo potente del coraggio umano. In un angolo del paese dove la storia sembra meno visibile, queste vicende ci ricordano che anche nelle zone più remote si possono intrecciare i destini di chi subisce e di chi lotta per non voltarsi dall’altra parte. La memoria di quei giorni difficili continua a essere un monito per le generazioni future, affinché il rispetto per la dignità umana e la lotta contro ogni forma di odio restino sempre al centro della nostra vita.

 

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