La “sindrome del terzo uomo” che si manifesta nei momenti difficili: è un’allucinazione, l’Angelo custode o il nostro Essere più profondo?

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La sindrome del terzo uomo si manifesta quando, in situazioni di pericolo estremo o di isolamento prolungato, una persona avverte con straordinaria chiarezza la presenza discreta di un compagno invisibile che la guida e la sostiene. Ernest Shackleton fu il primo a descriverla in termini concreti: durante la disperata marcia di salvezza nella South Georgia antartica, nell’inverno del 1916, egli raccontò di aver percepito un quarto passeggero camminare silenzioso al suo fianco, un’entità che alleviava la fatica e infondeva coraggio. I suoi due compagni, Tom Crean e Frank Worsley, confermarono in seguito la stessa esperienza, suggerendo che non si trattasse di un’allucinazione individuale ma di un fenomeno comune a chi si trova oltre il limite della resistenza fisica e mentale.

Nei decenni successivi, alpinisti come Frank Smythe sull’Everest e sopravvissuti a catastrofi naturali o incidenti in mare hanno testimoniato analoghe presenze protettive: voci che intimavano di non arrendersi e che spingevano ad andare avanti, ombre accoglienti che facevano da scudo contro la paura di morire. Anche pazienti risvegliatisi dopo un arresto cardiaco o in stato di coma profondo hanno descritto vicende verificabili a occhi chiusi, a dimostrazione che la coscienza può persistere oltre i confini dell’attività cerebrale misurabile.

Le neuroscienze hanno individuato nella giunzione temporo‑parietale il centro di queste “presenze percepite”. Attraverso stimolazioni elettriche controllate, ricercatori svizzeri sono riusciti a evocare in volontari sani la sensazione di un’altra entità alle spalle, un esperimento che ha confermato come un lieve disallineamento fra input motori e tattili possa generare la convinzione di un compagno invisibile. Analogamente, ricerche condotte con campi magnetici pulsati hanno dimostrato che basta una lieve perturbazione dell’attività cerebrale per far emergere il “terzo uomo” dentro chi lo sperimenta, sia esso un soggetto virtuoso in meditazione o un esploratore in preda alla fame e al freddo.

Anche la NASA, consapevole che l’isolamento è uno dei maggiori rischi per le missioni di lunga durata, ha studiato l’impatto psicologico della solitudine estrema. Negli analoghi terrestri creati per simulare l’esperienza su Marte o alla stazione polare, i ricercatori del Human Research Program hanno osservato ciò che chiamano “winter‑over syndrome”: un progressivo ritiro sociale, aumento dell’irritabilità e tendenza a percepire compagnie sostitutive nei compagni di squadra o perfino in visitatori immaginari. Per contrastare questi effetti, la NASA ha sviluppato il protocollo CONNECT — Community, Openness, Networking, Needs, Expeditionary mindset, Countermeasures, Training — che suggerisce strategie di condivisione, attività di gruppo, supporto virtuale con la famiglia, esercizi di mindfulness e preparazione mentale per mantenere salda la coesione e prevenire la frammentazione del sé.

In particolare, l’uso regolare di videoconferenze con i propri cari, di diari personali, di realtà virtuale per ricreare ambienti familiari e di esercizi di co‑presenza guidati dai colleghi sono contromisure che hanno ridotto in modo significativo tanto il disagio psicologico quanto le esperienze di “presenza sentita”. Le intuizioni raccolte nelle basi antartiche e nelle stazioni subacquee hanno permesso di progettare ambienti di vita spaziale dove ogni componente ha un ruolo condiviso, un rituale quotidiano e un sistema di sorveglianza emotiva reciproca.

Questo intreccio di testimonianze reali, esperimenti neurologici e protocolli di supporto psicologico dipinge un quadro in cui la mente umana, spinta al limite, attiva risorse inaudite: un guardiano interiore o “angelo custode” che non è una mera allucinazione, ma un meccanismo di sopravvivenza. Il confine fra fisiologia, psicologia e spiritualità si fa sottile, mostrando come ogni cultura abbia da sempre raccontato spiriti guida o spiriti protettori per dare forma a questa forza invisibile. La sindrome del terzo uomo resta così un affascinante enigma, un varco aperto sulla capacità dell’essere umano di trovare dentro di sé la compagnia e il sostegno necessari per superare l’impossibile.