
No. Non si tratta di dejà vu, o di sogni premonitori. E neppure del fatto che – a volte, nel dormiveglia – ci sembra di prevedere un rumore che poi effettivamente si verifica. E neppure che di giorno incontriamo persone che abbiamo sognato la notte precedente.
Stiamo parlando di un fenomeno diverso ma altrettanto affascinante che ci porta a concludere che ciò che vediamo, effettivamente non esiste. Ciò che vediamo sarebbe solo una media tra un punto passato e un punto successivo.
Questo non è complicatissimo da immaginare, se io vedo dov’è un punto giallo e poi dopo qualche istante lo vedo – come in un fotogramma successivo – dove è arrivato, posso comprendere che il mio cervello abbia fatto una sorte di media e me lo fa vedere nel punto intermedio (anche se là non esiste o, se esiste, non sono riuscito a vederlo davvero).
L’aspetto più affascinante è un altro: se io vedo un punto giallo, che nel fotogramma successivo diventerà verde, ebbene io vedrò nel punto intermedio non un punto giallo o un misto dei due colori: io vedrò un punto verde; come se il cervello avesse potuto “prevedere” (estrapolare) ciò che esso sarebbe diventato!
Insomma, e in un certo senso, un sorta di principio di indeterminazione (che invece “determina” una posizione) al contrario!
Ma rientriamo nei ranghi: l’effetto Phi nasce dall’inganno percettivo che trasforma una serie di immagini statiche in un flusso continuo di movimento. Nel breve filmato si vede un uomo apparentemente fermo sul posto, ma il trucco sta nella successione rapidissima di fotogrammi: ciascuna immagine evoca nel cervello l’idea che un oggetto si stia spostando tra un punto e l’altro, anche quando in realtà non c’è nulla che si muova realmente. Max Wertheimer, a inizio Novecento, dimostrò che mostrando due linee illuminate in rapida alternanza su uno schermo gli osservatori non percepivano prima A e poi B, bensì un’ombra indistinta in movimento che congiungeva idealmente i due punti. Fu una scoperta fondamentale per la psicologia della Gestalt, poiché rivelò che la percezione è un processo attivo di costruzione e non una semplice registrazione di stimoli.
Molto prima dell’avvento dei laboratori di psicologia, già Eadweard Muybridge, nei suoi studi sul galoppo dei cavalli a fine Ottocento, utilizzava una batteria di fotocamere per catturare sequenze di istantanee in grado di farci vedere un movimento fino ad allora sfuggito all’occhio umano. La pellicola cinematografica stessa si fonda su questo principio: riproducendo da sedici a cinquanta fotogrammi al secondo, sfrutta la persistenza retinica per dare vita a un continuum visivo.
A livello cerebrale, l’integrazione temporale di stimoli isolati coinvolge non soltanto le aree visive primarie, ma soprattutto la regione MT/V5, dove neuroni specializzati codificano il movimento interpolando traiettorie tra due punti distanti. Un modello teorico – proposto a metà del secolo scorso – ipotizza che due segnali luminosi, filtrati con un leggero ritardo reciproco e combinati in modo non lineare, diano origine a un output che il cervello riconosce come moto puro, anche in assenza di uno spostamento fisico.
Il concetto di “cervello predittivo” ha inquadrato l’effetto Phi in un contesto più ampio: il nostro cervello non attende passivamente gli stimoli, ma genera costantemente previsioni sul mondo esterno, confrontandole con i dati sensoriali in arrivo per ridurre le discrepanze. In quest’ottica, quando ci apprestiamo a vedere un oggetto muoversi, le aree cerebrali di ordine superiore anticipano la traiettoria e inviano segnali alle aree inferiori perché preparino la percezione corrispondente; se la sequenza di immagini corrisponde alle ipotesi interne, ne scaturisce l’esperienza di un movimento fluido.
Un’altra chiave di lettura è offerta dal fenomeno della “postdizione”: l’interpretazione di uno stimolo iniziale può venire rielaborata dai segnali percepiti nei decimi di secondo successivi. Gli studi su illusioni come il “flash‑lag” – in cui un lampo appare retrodatato rispetto a un oggetto in movimento – rivelano che il cervello raccoglie le informazioni riunendole in blocco e assegnando retroattivamente la posizione e il tempo percepiti. È come se la mente stendesse una pellicola mentale lunga pochi millisecondi, su cui scorre un film in cui il passato viene leggermente riscritto in base alle tracce successive.
Altri esempi, quali il “flash‑drag” o l’“effetto Frohlich”, confermano che il sistema visivo tende a riallineare istantaneamente la posizione degli oggetti lungo la direzione del loro moto, anziché catturarli istantaneamente nel punto esatto in cui si trovano. Questo bias di localizzazione è utile per compensare i ritardi di elaborazione neuronale e mantenere la percezione in sintonia con la fisica dell’ambiente, pur utilizzando soli impulsi discreti.
Sul piano computazionale, modelli molto recenti hanno mostrato che microcircuiti ispirati ai neuroni biologici possono arrivare ad “anticipare” il segnale di picco del loro input unendo tempistiche leggermente distorte in un circuito di retroazione e feedforward. Ciò ricorda il comportamento dei nostri neuroni nel predire il futuro immediato, quasi come se fossero veri e propri oracoli capaci di cogliere un’attività che deve ancora verificarsi.
Il parallelo con l’intelligenza artificiale non è casuale: reti neurali ricorrenti addestrate a prevedere fotogrammi video futuri apprendono dinamiche molto simili a quelle delle aree visive MT/V5, suggerendo che tanto il cervello quanto l’IA operano secondo schemi di inferenza basati su modelli probabilistici e predittivi.
In definitiva, l’effetto Phi non è un mero trucco percettivo, ma una finestra preziosa sul modo in cui la mente struttura il tempo: attraverso predizione, integrazione e postdizione, il nostro cervello trasforma impulsi discreti in un’esperienza continua e coerente. Ciò ci dimostra che la realtà così come la viviamo non è un mero riflesso passivo del mondo esterno, bensì il risultato di un artificio interno, un’opera creativa in cui passato, presente e futuro si mescolano in un istante che dura qualche decimo di secondo.